Lo chiamano “Black Ice”, il ghiaccio nero, ed è subito chiaro il perché: quando le bianche crepe, che tanto ci incutono un senso di precarietà, a tratti scompaiono, sotto i nostri occhi si apre l’abisso e con esso la paura di essere inghiottiti da quel vuoto. Otto, nove ore al giorno di cammino e la nostra mente si perde tra quei gangli dell’acqua, ricaccia nel fondo timori ancestrali mentre gli occhi e il cuore si riempiono di quella geometrica bellezza.
They call it “Black Ice”, and it’s immediately obvious why: when the white cracks, which produce a feeling of precariousness, disappear in places, an abyss opens before our very eyes, and with it the fear of being swallowed by that void. Eight, nine hours a day walking, and our minds are lost among those ganglia created by water, ancestral fears driven back, while our eyes and hearts are filled with the geometric beauty.
Experience by Antonella Giacomini & Daniela Facchinetti